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UBER DAL BAR

 
 
 

“Uno spettro si aggira per l’America. Lo spettro di Fidel Castro”. Inizierà così, il prossimo libello programmatico di Marx ed Engels (se ancora sono in grado di scrivere) o di qualche economista illuminato dei prossimi decenni?

L’auspicio del rossonero movimento 26 de Julio (il leggendario M-26-7) e del rossonero cuore Villa d’oro andrebbe ovviamente in questo senso. Forse la storia ci darà ragione, oltre ad assolverci. Intanto Fidel Castro è stato, è e rimarrà l’imperituro esempio che l’imperialismo si può combattere, che il gigante si può sfidare, che il tiranno si può sconfiggere.
Come come come? Sento già la vocina “ma che dici, vecchio comunistaccio? Era un tiranno pure lui, e della peggior specie!”.
La ribattuta è tanto semplice quanto monosillabica: no.

Ed è un no ancora più convinto a fronte di tanti giudizi sommari, tanto in positivo che in negativo, lanciati come strali o sentenze da chi magari ha letto poco e male, sulla rivoluzione castrista, o ancora da chi a Cuba non è mai passato nemmeno per un caffè e da chi, ancora di più, non ha mai confrontato coi suoi piedi ed i suoi occhi La Isla col resto dell’America Latina.

Perché è là dentro che sta la differenza: nel cercare con le proprie domande dentro al cortile degli Stati Uniti cosa ne pensano i colombiani, i venezuelani, i brasiliani o i nicaraguensi, di Cuba e del suo popolo. E, terminato il giro, chiedere ai cubani medesimi cosa pensano di loro stessi. Oggi, cinquantotto anni dopo la Rivoluzione.

È chiaro che un colosso della Storia come Fidel vada guardato secondo diverse prospettive. La sua immagine non può che risultarne chiaroscurale. Scuro è stato il periodo degli anni ’70 quando, troppo influenzato dall’ideologia brezneviana, il comandante in capo aveva deciso una linea dura, tremenda, di adesione e perseguimento del socialismo reale.
Scuro il post Baia dei Porci, scura (sicuri? Torniamo sempre al concetto di esportazione di una democrazia ‘nostra’ ma non ‘loro’) la chiusura del partito unico e del passaggio di consegne unilaterale al fratello. Scure e chiuse le frontiere per alcuni disertori, su quelli sportivi ci si potrebbero scrivere enciclopedie e la miopia cubana, qui, è ancora davvero incomprensibile.

E poi? E poi c’è il paese, c’è Cuba, ci sono, appunto, i cubani.

Che sono tutt’altro. Tutt’altro rispetto al resto del disgregato o cangiato universo socialista, che sono tutt’altro rispetto all’assimilabile, distrutto e sottomesso universo latino-americano, che sono tutt’altro rispetto al resto del mondo.

Perché? Semplice, come quelle due sillabe: Fidel.

Cuba, paese senza storia e senza indipendenza, si è costruita attraverso quella guerriglia capillare, fatta di villaggi e cacciatori, di agricoltori e contadine. Si è data un’identità che nessun’altro paese meticcio d’America o Africa ha mai avuto, si è costruita sparo dopo sparo, bomba dopo bomba. Soprattutto, si è costruita sigaro dopo sigaro, comida dopo comida, accampamento dopo accampamento. Perché il socialismo di Cuba è scritto prima nei geni che nei libri. È qualcosa che il visitatore non distratto percepisce in quasi ogni angolo, soprattutto fuori dall’Avana che, come ogni metropoli che si rispetti, è nei fatti uno stato a sé.
Fidel Castro ha incarnato per sei decadi il sogno di emancipazione, di affermazione e di libertà di un intero continente, ed è riuscito laddove nessuno mai: costruendo prima di tutto un’identità e poi un sistema, garantendo al suo popolo, sempre, i beni e i servizi primari pur vessato da uno degli embarghi più feroci che la storia ricordi.

Era un dittatore? Sì, per molti versi, soprattutto quelli della logica occidentale ed eurocentrica.

Ma ha costruito la colonna vertebrale di un popolo che non l’aveva, ha condotto per mano i cubani attraverso le difficoltà e le loro paure, ha sedotto il mondo e scherzato gli Stati Uniti, ha tenuto in pugno la potenza più grande (e feroce) del pianeta possedendo un arsenale militare da piccola frazione.

Il tutto con la forza di un’idea che teneva incollato il suo popolo e seduceva i vicini: quella che l’irrealizzabile sia realizzabile. Un dittatore, allora, forse. Che però voleva un bene immenso alla sua gente.

Altri ci hanno provato, altri credevano di esserci riusciti, con metodi molto diversi: Lenin e Stalin, prima di tutti, Mao, Robespierre, tornando indietro. Tutti esempi di cambiamenti solo parzialmente dal basso e rovesciati più o meno velocemente dalla Storia o dallo stesso potere centrale, che ha cambiato rotta per conservarsi.

Il socialismo di Cuba, oggi, è nella vita quotidiana, anche in quella della ‘eversione’ rispetto allo Stato: è il socialismo dei medici che prescrivono diete più ricche di carne ai loro sanissimi pazienti per eludere la tessera alimentare e le sue razioni; è il socialismo delle distillerie di Stato, che consentono ai sagaci abitanti delle campagne di bucare le tubature che trasportano il rum alle bottigliere e costruire rudimentali fontane alcoliche, per bere qualcosa in più del consentito. È il socialismo dell’ospitalità nei villaggi della Sierra, è il senso di gratitudine di chi è conscio, forse con un pelo di giustificata presunzione, di essere migliore di ciò che gli sta intorno. È il socialismo della solidarietà internazionale, dello scambio impensabile petrolio-medici col Venezuela, degli aerei carichi di malati angolani e congolesi salvati dalla sanità di Castro, quando rimanendo in Africa sarebbero morti.

Cuba ha tutto quello che i suoi vicini non hanno: case, case per tutti; assistenza medica, assistenza medica per tutti; chiese, anche quando Fidel aveva tolto dal calendario il Natale, perché i sacerdoti, a Cuba, non sono mai stati sfrattati dalle loro case. Mai, è bene saperlo quando si paragona Cuba agli ‘altri’ regimi socialisti.

Soprattutto a Cuba non vedrete mai un bambino mendicare per strada o lavorare in fabbrica: al mattino non ci sono bambini, per le vie delle città e dei paesi di Cuba, come invece ce ne sono a migliaia per quelle di Città del Messico, Managua, Rio de Janeiro. Perché? Semplice, vero? Perché sono a scuola.
Scontato per molti occidentali, per gli italiani, per i grandi censori del castrismo. Del tutto meraviglioso e meravigliante per i latinos.

Se Cuba sopravviverà al suo comandante en jefe sarà solo il futuro a dircelo, ma a dispetto di tante altre esperienze non è, quella dell’isola caraibica, una sfida persa in partenza.

Se non ci siete mai stati, pochi amici che leggete queste sgangherate righe, andateci. Fatelo presto, perché alla fine non si sa mai. E poi, se ne avrete voglia, fate anche un viaggio in Messico, o in Colombia, o in Guatemala, o in Brasile. In quelli veri, nelle grandi città, nelle campagne. E raccontateci cosa avete visto.

Ha ragione, chi scrive che con Fidel Castro è finito il Novecento. È così. Speriamo, noi nostalgici sognatori, che con Fidel Castro non sia finita anche Cuba. E, soprattutto, non sia finita l’ambizione di poter costruire, con tutti gli errori del mondo, un luogo migliore per vivere. Mica per noi, che ormai siamo irrecuperabili: per i nostri figli. Che ancora non sanno.

di Alessandro Trebbi
Scrivete!
 



 





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